Rose Mary Rosa Croce
Rose Mary Rosa Croce

Rose Mary Rosa Croce

Rose Mary nasce in un villaggio affacciato sul mare, Porto di Nebbiamare vicino ma non troppo dalla città Selgaunt nel Sembia, non ricorda le vie ed i volti degli abitanti ma ricorda perfettamente il profumo del granchio che si cuoce lentamente nel gumbo e l’aria calda carica di sale con sentori vivaci di menta peperita che le accarezza il viso. La sua infanzia si dipanava davanti ai suoi occhi lentamente, lontana dagli intrighi di potere, all’ombra delle guerre di religione e come unico passaggio al di fuori di quella casa adornata da sabbia, coralli e scogli c’erano i racconti del vecchio Tash: avventure, scoperte di antiche civiltà e mostri marini colossali e spaventosi.

Porto di Nebbiamare – villaggio natale di Rose Mary

Rose Mary, almeno quella Rose Mary, amava dare la caccia ai gatti ed aiutare suo padre Carlos a districare le reti da pesca lasciate ad asciugare al sole; quella Rose Mary amava la sua semplice vita, una vita fatta di attese: la cottura del pane, l’abbassamento delle maree, il ritorno delle navi da pesca o semplicemente l’attesa dello strillone del re sulle ultime notizie del regno; ma soprattutto la storia di Ghilar l’avaro e dei gremlin dispettosi che sua madre Conchita le raccontava sempre.

Sii come il mare, profonda,
temibile e sempre affamata.

Motto personale

Background

L’inizio

Rose Mary a 10 anni

Rose Mary aveva dieci anni, capelli biondi come le spighe di grano, maltrattati dalla salsedine, e occhi profondi e neri. A dieci anni tutto quello che poteva desiderare era a portata di mano. Una vita semplice, un futuro semplice, forse noioso, forse così piccolo da nasconderlo nel carapace del granchio soldato ma è a quell’età che tutto le venne tolto.

Quella notte la madre Conchita la mise a letto nello stesso modo:
rimboccandole con cura le coperte di cotone grezzo in modo da proteggerla dal vento freddo serale e accese la piccola candela rigenerata più e più volte, la cui luce danzava e tremolava apparentemente, anch’essa, in attesa della favola della buona notte.
Conchita si prese tutto il tempo per cominciare, con le mani rovinate e con le unghie spezzate, posate sulla gonna di velluto rosso; la guardava in silenzio, con quegli occhi verde smeraldo, seri e spalancati.
Rose stringeva forte la coperta, da sbiancarsi le nocche; aveva sempre un po’ di timore di quella storia ma le piaceva ascoltarla.
La madre prese un profondo respiro e disse: «Allora, mia piccola gremlin hai sonno?»
Camuffava la voce, più rauca e più acida possibile col rischio di ritrovarsi a tossire.
Rose aveva sentito parlare di quelle creature solo da Tash e sua madre e ne era rimasta innamorata; si ritrovò ad annuire con forza.
Conchita si guardò intorno con sospetto prima di cominciare a raccontare:
«La luna splende alta nel cielo e i bambini dormono nei loro letti. Ma noi no. Noi gremilins non dormiamo. Cosa facciamo?»
«Noi facciamo i dispetti.»
«Noi giochiamo.» Dissero in coro entrambe.
«Brava! Bene, ma adesso ascolta. Una notte l’Avaro Ghilar nascose tutte le sue monete scavando sotto una pietra di alabastro, bianca come il latte di capra che hai mangiato oggi pomeriggio. Ghilar si guardò attorno più volte, poi tornò a casa, sospettò della moglie che forse l’aveva seguito e non smettè di pensarci.
Vedeva lo sguardo avido quando cucinava, quando lavorava al suo telaio a pettine, persino quando giaceva dormendo al suo fianco.
Ossessionato dalla moglie, Ghilar non riusciva a dormire e neanche a mangiare o a lavarsi.
A proposito…»
La guardò con uno sguardo severo, socchiudendo gli occhi verdi.
Rose nascose un po’ di più la faccia tra le lenzuola.
Era tardi e bisognava ancora scaldare l’acqua sulla stufa per quella volta ma solo per quella volta riprese a narrare lasciando passare.
«Ossessionato decise di andare a controllare, spostò la pietra e smosse la terra, l’oro era ancora tutto lì. Un sospiro di sollievo.
E ogni giorno della settimana, l’avaro andò a controllare e trovò sempre il suo oro, passava le ore a contarlo girandoselo tra le mani e quando si apprestava a tornare a casa si voltava a controllare la pietra candida e pura come se potesse fuggire col suo tesoro o che qualcuno, appena voltasse le spalle, fosse pronto a derubarlo immantinente. Senza il suo oro sentiva una grande angoscia al petto.

Carlos e Conchita Rosacroce i genitori


Un giorno decise che tutte le monete dovevano avere una macchia di cera rossa per riconoscerle, armato di candele passò una mattinata a segnare tutte le sue amate e fu in quel momento che cominciò la sua fine.
Sai che i gremlins fanno i dispetti vero?
Ecco, videro Ghilar e dove nascose le sue monete e le presero tutte.
Povero Ghilar.
Accusò la moglie, urlò e si strappò i capelli, girava per casa e per la città con gli occhi lucidi, con le mani sporche ancora di terra.
Fino a quando non trovò una moneta nella tasca della vestaglia e una nella sua tinozza dell’acqua, un giorno ne trovò tre persino nel pesce che aveva comprato al mercato. Erano le sue, con la bella macchia di cera rossa.
Ogni volta accusava qualcuno, girava per il mercato gridando e calunniando l’oste, la moglie e persino il gatto di aver ordito qualcosa di terribile con il suo denaro.
Fino a quando non andò via dalla città lasciando la moglie e la propria vita, vivendo per quelle poche monete che aveva riavuto e da solo, lontano da gli occhi di tutti.
Come un pesce che gira sempre intorno riprese a seppellire i suoi guadagni sotto una pietra di alabastro bianca, candida come il latte di capra.
E questa è la fine.»
Rose aveva gli occhi semichiusi ma trovò la forza di obbiettare.
«Ma non hai raccontato della moglie, madre.»
A quel punto i passi pesanti del padre si fecero largo nella stanza; si chinò in ginocchio come un principe farebbe con la sua dama e le prese la mano.
La barba incolta, alla luce della candela, sembrava paglia dorata, le rughe agli angoli degli occhi sembravano più profonde, come solchi fatti da un aratro nel mese più caldo dell’anno; continuò con la sua voce profonda ma seghettata che racchiudeva tutto l’amore di un padre per la sua bambina.
«I gremlins decisero che la donna aveva sopportato anche troppo a lungo Ghilar e una mattina uscì nel cortile, uccise il pollo e si preparò per cucinarlo, gli tagliò la pancia con un lungo coltello affilato e cosa vi trovò dentro?»
Si prese una bella pausa girandosi verso la moglie, cercando un consenso che non tardò ad arrivare; occhi stanchi che guardavano occhi stanchi ma che solo insieme avrebbero potuto affrontare qualsiasi mare in tempesta.
«Vi trovò dentro tutte le monete perdute.»
Carlos le accarezzò la punta del naso con l’indice per poi baciarla sulla fronte.
I genitori uscirono dalla camera mentre la candela continuò a tremolare fino a che una folata più forte lasciò cadere, una Rose sognate, nel buio.


Era l’ultima notte della sua vecchia vita e presto sarebbe tutto cambiato.

Nave schiavista dell’Anello di Ferro

Poco dopo la svegliarono solo le urla, il crepitio del fuoco e colpi pesanti in lontananza; rimase paralizzata nel letto fino a quando il padre non irruppe nella sua camera prendendola di forza e portandola fuori.
Il fuoco divampava sui tetti di legno, il mare sembrava una distesa immensa di olio ed in quel momento si sentiva sperduta ed un vento imponente sferzava il suo cuore nel petto.
Uomini dalle armature nere radunavano gli abitanti in riva al mare, erano pochi ma ben armati e dal volto coperto. Due di loro li intercettarono avevano le teste rasate coperte di tatuaggi intricati con vene e arterie rigonfie che pompavano con un ritmo spaventoso, due lunghe orecchie a punta e tratti vistosamente elfici.
Parlarono con una voce baritonale, così deformata che applicarla ad esseri viventi e di questo piano poteva solo sembrare un’eresia.
«Lasciate cadere le armi e arrendetevi. Non ponete in pericolo la vostra vita. Siamo dell’Anello di Ferro e vi porteremo con noi, vivi o morti e la morte non è una scelta auspicabile, per voi.»
Appena ebbe finito di parlare Tash il cantastorie si tagliò la gola, aveva poco prima di aver ripetuto il nome della compagnia dei tatuati, cadde in terra come un sacco di farina e poi la paura banchettò avidamente con il cuore dei restanti; erano come piccole barchette in mezzo all’oceano in tempesta, senza speranza e senza libero arbitrio.


In pochissimo tempo si ritrovarono in riva al mare ma oltre agli altri abitanti non vi erano nessun altro tipo di saccheggio; niente cibo, gioielli, beni di prima e seconda necessitò, niente di niente e quindi erano qui solo per il carico “umano”.
Dalla notte oscura, scivolando silenziose su quel mare di olio, arrivarono tre navi ma costeggiando la costa e non dall’orizzonte come ci si aspetterebbe, e caricano sia i morti che i sopravvissuti dividendoli tra le barche, Rose Mary venne divisa dai genitori e da allora non li rivide mai più.
La nave era tozza e rozza, puzzava di aceto e formaldeide e metà della stiva era piena di corpi che cominciavano a gonfiarsi, fu incatenata all’albero maestro e costretta ad espletare i suoi bisogni direttamente in terra; già dal secondo giorno di navigazione voleva solo morire, nonostante la giovane età, il desiderio cominciava a radicarsi in lei.

La Piovra Nera

Una notte il mare era burrascoso ed una nebbia improvvisa impediva la visuale a poco più di un palmo dal naso ma qualcosa nella foschia si muoveva, forse la stanchezza e il freddo cominciano a farle qualche scherzo.
Poi tutto si rivelò mostrando agli schiavisti e ad i loro schiavi, una pantagruelica polena di legno raffigurante un grosso polpo gigante e la nave fu assaltata da quello che le sembra un galeone.

Bartholomew “Black Bart” Roberts

La nave non arrestò la sua corsa ma anzi travolse l’imbarcazione degli schiavisti.
L’impatto fu tremendo come un terremoto, un rumore tonante; Rose sentì le urla di sorpresa e di spavento degli schiavisti che imprecarono in una lingua a lei sconosciuta poi quella degli assalitori: vivaci, carichi di grinta e sovrastate da una voce più forte, prepotente e accattivante.
Un uomo sulla polena della nave impugnava una sciabola e con essa indicò deciso la nave nemica, l’altro braccio è avvolto in una fune appesantita dall’acqua della tempesta; era un uomo agile e snello, con la barba disordinata abbellita da anellini d’oro, ottone e argento mentre i lunghi capelli neri legati in due code di cavallo distinte una sull’altra venivano sbattuti a destra e a manca dal vento sempre più in tempesta.
L’uomo attirava tutto il suo interesse, non la battaglia che imperversava intorno a lei o i tuoni e i fulmini che cominciarono ad illuminare e scuotere ciò che la circondava ma quell’uomo; un uomo con uno sguardo deciso e gli occhi carichi di passione e selvaggia attrazione per l’avventura, ondeggiava per mantenere l’equilibrio messo in pericolo dalle onde rabbiose, schizzi di spuma volavano alle sue spalle, la camicia bianca vaporosa era costretta al petto da un corpetto di cuoio scuro.
«Io sono Bartholomew “Black Bart” Roberts e questi sono i miei ragazzi. Oggi avrete l’onore di esser prede, miei cari.»
Si lanciò, utilizzando la corda come una liana, sulle assi della nave schiavista, atterrò con leggiadria prima di rotolare fuori dalla portata di alcuni nemici, con una repentina capriola li colpì in diversi punti, caddero prima le loro armi poi il sangue schizzò.
Gli schiavisti della nave appartenevano all’Anello Nero ma nessuno di loro presentava i tatuaggi degli uomini sugli scogli, tutti meno che uno: il capitano che abbandonò il suo posto muovendosi tra la battaglia come un manichino, sbilenco ed in precario equilibrio, la pelle tatuata ondeggiava flaccida ad ogni passo, dando l’impressione di cascargli a terra da un momento all’altro come se fosse un pantalone troppo largo; aprì la bocca per parlare ma la voce (sempre se possiamo annoverarla sotto il termine voce o suono) scaturì dopo qualche secondo di troppo.
Una lingua oscura, incomprensibile con la capacità di rigarti l’anima e lo spirito.
Quella specie di uomo si stracciò la pelle di dosso, liberando qualcosa di inimmaginabile che le parole non possono descrivere e la mente umana non potrebbe calcolare ma Rose lo vide…
Vide gli aculei…
Vide le scaglie viscide…
Vide protuberanze pelose che non avevano un senso antropologico…
Vide questo e altro…
Poi svenne, tra le fiamme e le urla di chi, sotto coperta, moriva bruciato dalle fiamme che disegnavano saette verso il cielo.


Rose riaprì gli occhi, sorpresa di esser ancora viva.
Erano in pochi, una decina di persone, tutte del suo villaggio e tutti con gli occhi incavati dalla paura e dalla straziante consapevolezza del sentirsi impotenti; la sabbia sotto di lei era calda e candida ed in lontananza il galeone di Black Bart era ancorato, cullato dalle onde lievi; batteva per sua somma sorpresa una bandiera nera con teschio ed ossa incrociate.
«Pirati.»
Sussurrò con sorpresa mista ad ammirazione.
Non conosceva ancora il suo destino ma avrebbe dato la sua vita per tornare libera e cercare la sua famiglia.
I resti di piccolo fuoco ancora scoppiettavano pigramente, la legna odorava leggermente di cannella e qualche frutto esotico che non riusciva a carpire; nessuna catena ai suoi polsi e nessuna neanche alle caviglie, né per lei e né per gli altri e questo significava libertà ma a che scopo? Tutti i morti in quell’assalto a cosa erano dovuti?
«Bene ospiti, eccoci qui in mezzo a voi.»
La voce dal timbro allegro e armonioso proveniva dalle sue spalle, una decina di uomini erano indaffarati a scaricare le casse da piccoli carri le cui tracce si perdevano nella bassa vegetazione nell’entroterra.
Ma lui era lì.
Bartholomew “Black Bart” Roberts era davanti a lei, mani sui fianchi, la spada legata ad una grossa cintura di pelle nera e pantaloni decorati da catenelle e cordine; la barba rifletteva la luce tramite quelle pacchiane e grottesche decorazioni e creava una cornice ad un sorriso giallo come il piscio macchiato dal tabacco masticato.
Gli occhi azzurri erano pietre preziose in un viso segnato dal sole cocente e da una dieta povera di frutta; cominciò a ridere, una risata secca e cristallina che mal si stonava con i vostri visi contriti.
«Per come la vedo io avete poche scelte in questa vita» cominciò a tenere il conto con la mano destra, orfana dell’anulare ma impreziosito da anelli dalle fogge più strane come quello di una pietra rossa cangiante, come fuoco intrappolato. «Potete rimanere in questa isola vivendo di stenti, fornicando tra voi per passare il tempo e rimanendo sobri per il resto del patetico tempo che vi rimane; potete chiederci gentilmente un passaggio, ci vorrà una settimana per arrivare al primo porto disponibile con un livello di civiltà che abbia almeno una scorta di liquore e di troie da un livello accettabile ma questo vi costerà del lavoro sulla barca, mozzi, cuochi e spugnatori dallo stomaco forte per il vecchio Old Matt; oppure…»
Una voce simile ad uno squittio si fece largo nella loro testa aumentando il senso di incredulità e disorientamento; un minuscolo essere fatto di ali e luci si posa a gambe incrociate sulla spalla del capitano.
Un pixie dai capelli cobalto, arricciati come un’onda indomita dal nome “Aguzzo“, li guardava con occhi di sfida.
«Potete arruolarvi sacchi di sterco. Potete mangiare acciaio e cagare polvere da sparo come tutti noi. Potete far parte di una ciurma di pirati e diventare qualcosa di più di delle mezze seghe che si fanno rapire dai primi stronzi che passano
A Rose le scappo una risata che velocemente tappò con il palmo della bocca.
«Chi cazzo ha riso

Aguzzo – il Pixie della Piovra nera


La voce del pixie cominciò, incredibilmente, a salire raggiungendo livelli di stridore che a fatica si riesce a sopportare; le guance rosse persero di luce, si alzò in volo passando tra i presenti.
«Chi cazzo è quel rotto in culo che ha riso. Sarei forse tu? Lurida principessina da bordello di periferia?»
Si fermò proprio davanti Rose che rimase per un attimo impietrita.
Solo un attimo e poi si alzò ignorando l’essere minuscolo.
Rose era molto più alta dei bambini della sua età, i capelli lunghi biondi, un tempo raccolti in diverse codine, erano stati accorciati malamente dagli schiavisti e avevano un taglio tutto sbilenco.
«Capitano, io mi arruolerò. Voglio riprendermi ciò che è mio ma…»
Il pixie le ronzò intorno, forse incredulo per le parole della ragazzina o forse meditava solo la sua vendetta.
«Perché avete affrontato la nave dell’Anello? E perché…» Si fece forza per proseguire e ricacciare indietro il pensiero che i suoi genitori non abbiano avuto la medesima fortuna ma dovette cedere e una voce adulta prese il posto di quella di Rose finendo la domanda «… Perché avete salvato proprio noi? La nave non aveva carico prezioso e alcuni di voi hanno perso la vita nel farlo.»
Bart si accarezzo la barba mostrandosi pensieroso prima di rispondere con tono eccitato e deciso.
«I ragazzi hanno affidato il loro spirito ad Istishia del mare, mostrato il loro coraggio e sono morti solo per poter depredare anche gli abissi. Odiamo l’Anello di Ferro e diamo loro la caccia. Chiamalo sport se vuoi ma la loro presenza sul territorio è per noi una macchia di piscio in delle coperte pregiate. Volevate finire tra le loro mani? Gioite ospiti. Mangiate e riposate. Prendete le vostre decisioni.»
Rose rimase alzata con uno sguardo che non sapeva neanche di avere: risoluto e duro; qualcosa è riaffiorato dall’abisso della sua anima.
Qualcosa di nero, ruvido e arrugginito.
Qualcosa con un sorriso a tagliola.
«Io ho già deciso.»
«Questa mi piace Capitano. Forse è una giusta.»
La voce del pixie non la faceva più ridere ora pensava all’Anello di ferro e ai suoi genitori.
«Ragazza è proprio quello che vuoi?»
Il capitano si piegò in avanti avvicinando il suo viso; profumava di sandalo e pepe nero e aveva il naso forse un po’ troppo aquilino ma si sposava bene con il livello di eccentricità dell’uomo.
«Sono certa di quello che dico. Io Rose Mary figlia di Carlos e Cochita dei cucitori della Rosa Croce, giuro che sarò una piratessa e che prenderò il mare. Per la caccia all’Anello di Ferro.»
Black Bart l’afferrò per le spalle sfoggiando un sorriso pieno e solare.
«Si! Cazzo! Certo che ti prendo con me.»
Il pixie le si posò sulla testa e disse con la sua voce distorta:
«Andiamo a ficcare un bel pennone nel culo di quei bastardi.»
Rose si arruolò per un paio di anni, imbarcandosi nella “piovra nera” divenne più alta, più grande e più forte.
Quel giorno si aprì un nuovo capitolo di vita della ragazza.

Il Quartiermastro, il Bardo e la Pece

Quanto può cambiare la vita quando sono gli eventi che ti sballottolano a destra e a manca.
Quando una decisione presa da bambina ti possa cambiare, logorare e sconvolgere quello che eri e che potevi essere.
Quella bambina cominciò pulendo il ponte, la stiva e la cucina, ordinando la Santa Barbara e rimase ore e notti all’addiaccio al freddo dell’alto pennone come vedetta; la vedetta era comunque il ruolo che più amava, perché lì al buio, da sola, nascosta in alto che si sentiva protetta e che poteva sentirsi vulnerabile.
La nave puzzava di alghe marce, non vi era cibo, spezia, acqua di colonia o vomito rancido da usare per togliere quell’olezzo; si insinuava nel cervello ed ad ogni mansione o pasto percepivi quel sentore acidognolo che non riuscivi ad ignorare e persino nel reame dei sogni sembrava di sentirne il sapore e l’olezzo.
La ciurma era piuttosto eterogenea con la figura del Quartiermastro che spiccava tra tutte.

Il Quartiermastro – Abraham “Bruto” Johnson


Un uomo non molto alto e dall’ampio petto che portava una bandana blu e bianca sotto un classico cappello tricorno; la giacca aveva i bottoni lucidati e stonava sia con il suo aspetto fisico, più brutale, dal viso rovinato e dal naso storto, la barba brizzolata non era omogenea ed un odore che ricordava qualcosa di acido e ispido era insinuato in fondo alla sua gola ma i suoi abiti volevano raccontare una storia diversa e volevano, soprattutto, sottolineare il suo ruolo all’interno della ciurma.
Si chiamava Abraham “Bruto” Johnson, ed era temuto da tutti i membri dell’equipaggio per la sua ferocia e la sua abilità nelle arti della guerra; gestiva le risorse del galeone, i compiti di routine di tutti e partecipava in maniera attiva alle riunioni decisionali.
Era il braccio destro del Capitano Roberts, il suo più fedele compagno di battaglia e un uomo di grande intelligenza e risolutezza.
Rose non sembrava avere simpatie per nessuno, fissava il mare soprattutto la notte quando il silenzio inganna la gente e nell’ora in cui il fascino dell’oscurità accarezza la parte più primordiale del cervello di chi guarda.
«Non lo sai che non si deve guardare il mare dopo il tramonto?»
Rose trasalì, la voce profonda come onde sugli scogli, la prese di sorpresa.
Erano sulla balaustra a prua del galeone, alle loro spalle la parte più imponente, alta e rifinita della nave, la poppa, con gli alloggi del capitano e il timone; Rose stava guardando il mare proprio al di sotto, come le onde venivano spaccate in due per il loro passaggio.
Abraham le era comparso di fianco mentre era assorta in quel miraggio e la domanda la prese così alla sprovvista da non trovare una risposta rapida da dargli.
Rose aveva oramai dodici anni ed in tutti gli anni di navigazione non aveva e non voleva ricevere attenzioni e conforto da nessuno della ciurma, solo il capitano, di tanto in tanto, le raccontava storie e curiosità sui suoi viaggi passati; lei lavorava, si addestrava per ottenere il vero riconoscimento in mezzo a quella gente e non voleva che qualcuno la trattasse per quello che, in cuor suo sapeva ma che non voleva ammettere, era realmente: una bambina sperduta.
«Il mare esige rispetto è vero ma ciò che non ti dicono è che esige anche dei tributi: guerra, fuoco e sangue. Così placido, così calmo ma anche così terribile nella sua fame.»
Continuava a parlare mentre guardava nell’orizzonte oscuro d’innanzi a loro.
Lui la salutò, ammonendola nuovamente di non rimanere a fissare il mare.
«Il mare è sempre affamato, ricordatelo.»

Gli incontri con il Quartiermastro si ripeterono a notti alterne ma durante il giorno le insegnava a fare di conto, ad usare la frusta e a come utilizzare il proprio atteggiamento e la postura per soverchiare psicologicamente il nemico.
Quell’anno Rose crebbe di ben quattordici centimetri, le gambe cominciarono ad affusolarsi, la chioma bionda a prendere un luce diversa ed il suo profilo ricordava più quello di una donna che quello di una bambina; le spalle però erano già larghe per il lavoro sopra il galeone e mostrava predilizione per i lavori manuali dove le mani dovevano esser ruvide e callose.
La navigazione continuò ed all’ennesimo saccheggio si ritrovò ancora una volta relegata in stiva con il medico di bordo, un cavadenti orbo oramai prossimo a passare a miglior vita.
Le spade volteggiavano e passi decisi ticchettavano sulle assi; illuminati dal sole uomini e donne danzavano con la morte, movimenti decisi fatti di sciabolate e stoccate accompagnate da urla e strepiti.

Primo incontro con un Aasimar

Lei rimase comunque nascosta in cerca del coraggio per gettarsi nella mischia quando il cadavere di un uomo dalla barba ben rifinita ed il mento aquilino non cadde a pochi passi da lei; trattenne il fiato si concentrò e alla fine si lanciò verso la daga abbandonata da quell’uomo.
Non era la prima volta che brandiva un’arma ma il solo stringerla in quella bolgia di sangue e sudore le faceva venire la pelle d’oca ed una eccitazione fuori dal comune.
Ma la paura prese ben presto il posto dell’eccitazione quando lo vide.
Planava sopra il galeone fino ad atterrarvici sopra, due spade lunghe tra le mani, una armatura pesante che così non l’aveva mai vista con spallacci in acciaio ed una piastra pettorale adornata da piume incise ed una gonna in cotta di maglia; era il viso a spezzarle il fiato a farle crescere il terrore dentro.
I capelli biondi vorticavano al vento come se avessero vita propria, frustati in un senso e nell’altro come se fossero posseduti, la pelle così chiara da sembrare porcellana finissima e gli occhi bianchi, luminosi come lampi nella tempesta.
Quello non era un nemico, era un dio della guerra, venuto per abbattere il galeone e ucciderli tutti; a toccare il pavimento furono prima le gocce di sangue che scivolavano dalle lame e solo dopo gli stivali e nel contatto non fece nessun rumore. Perché in fondo, la morte è silenziosa nonostante sia inevitabile.
Le armi turbinarono falciando e amputando i suoi nemici, avanzava inesorabilmente come se non provasse sentimenti, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Quel Dio della guerra si imbatté in Black Bart in uno scontro rapido e cruento dove il capitano cercò in ogni modo di evitare quelle lame di morte.
Erano due guerrieri eccezionali e nel guardarli non le sembrò più di essere in mezzo alla battaglia, di rischiare la vita ma di trovarsi d’innanzi ad uno spettacolo fatto di piroette, lampi magici e riflessi impossibili; l’armonia si spezzò quando quella forza della natura riuscì a mettere alle strette il capitano, lo chiuse in un angolo con il fiato corto.
I due si guardarono immobili, l’avversario con le due spade che puntavano il pavimento, in attesa, con il corpo eretto e senza una vera e propria posizione d’attacco mentre Bart era rannicchiato con la sciabola di traverso ed il pugnale vicino alla guancia sinistra; l’attesa durò pochi attimi ma sembrarono infiniti poi il guerriero in armatura cominciò a far vorticare le spade in un turbine affilato che non avrebbe dato scampo a nessuno.
Uno, due, tre passi in avanti mentre Bart si schiacciava per valutare una qualsiasi via di fuga, il vento generato dalle armi gli scompigliava i capelli e fece volare via il cappello che si perse in mare; non rimaneva che aspettare fino a quando l’uomo d’acciaio si arrestò con somma sorpresa di tutti cominciando ad agitare le braccia, lasciando cadere le armi, cercando di arrivare al centro della schiena.
Il capitano colse l’occasione e sfregò tre volte il pollice sul suo anello cangiante e si gettò contro il suo antagonista, gli afferrò le gambe e lo fece cadere rovinosamente in terra in un tonfo che quasi sovrastò il clangore della battaglia sulla nave.
Quando quel Dio cadde rovinosamente al suolo, alle spalle dei due comparve Rose.
Il viso insanguinato ed il respiro affannoso, aveva un grosso sorriso giocoso stampato sul volto e tra le spalle del dio sputava una piatta e compatta daga; Bart non aveva tempo per comprendere appieno cosa stesse succedendo in quanto quell’uomo stava già per rialzarsi e quindi gli ficcò l’anello in bocca sussurrando con decisione la parola Ignis.
E funzionò, eccome se funzionò.
La testa divampò come un tizzone ardente consumando persino l’anello e mentre Rose guardava l’accaduto cominciò a godere di ogni rumore ed odore; ebbe una sensazione quasi orgastica con una pompata di adrenalina direttamente nel cervello e tutto questo la fece sentire viva e dominante.
«Fottuto Aasimar.» sussurrò Bart.
Abraham la prese e la trascinò senza tanti convenevoli fino alla poppa gettandola nuovamente con il medico, al sicuro.
Lei si sedette in terra con le spalle poggiate ad un barilotto di pece che trasbordava, alcune gocce scivolarono fino a macchiarle il collo e le spalle e nel vederle si ritrovò a sorridere, con il viso incorniciato nella sua spettinata e mal tagliata chioma di capelli biondi.
Non era pronta a lasciare libera quella “cosa” che le stava crescendo dentro e da anni cercava di tenerla assopita ma quel sangue e quel catrame nero le accendeva qualcosa nella testa, voleva essere diversa, forte, decisa e, soprattutto, che la gente avesse paura di lei.
Non mancava molto e presto sarebbe nata una nuova Rose… un Dio della guerra.
Nei giorni seguenti all’episodio si legò ancora di più al Quartiermastro, le chiacchierate divennero più intime fino a quando lui le rivelò l’unica cosa che la legava ancora a questo mondo: dove si trovavano i suoi genitori e fargliela pagare all’Anello di Ferro.
«Lo trovo ingiusto, Rose. Mi cascasse il cielo sopra la testa, ti aiuterò a trovarli.»
L’abbraccio fu lungo e l’odore sgradevole dell’uomo non toccò per nulla la ragazza; lei non pensava più alla vendetta ma alla felicità di ritornare una famiglia.
Al primo scalo avevano un paio di giorni liberi, qualche moneta per le spese personali ma possibile vitto e alloggio sul galeone; di nascosto i due si diedero appuntamento in città e stando alle ricerche dell’uomo avevano trovato un contatto con un certo Sìmon de Caras, un contatto che poteva portarli dalla coppia in quanto comprati come schiavi, raccoglitori di canne da zucchero, per un signorotto delle sue terre.
L’appuntamento a notte inoltrata fu in una bettola squallida e malandata, situata in un vicolo buio e poco frequentato; aveva la facciata coperta di sporco ed i segni evidenti di usura che lo rendevano pericolante, mentre l’interno era ancora più desolante.
Era il rifugio dei miserabili e degli emarginati, un luogo dove non si andava mai di buon grado ma solo per necessità o per cercare guai ma lei era lì in attesa completamente fuori luogo nella sua silhouette troppo giovane, la carnagione troppo chiara e soprattutto del sesso sbagliato.
Avrebbe riconosciuto De Caras da un braccialetto d’oro, un liuto malandato, carnagione scura come la notte ed una vistoso collo di volpe a cingergli le spalle ed era lì, effettivamente, Abraham non aveva mentito, poggiato sullo stipite della porta che dava nelle stanza private.
A pochi metri da lui riuscì ad intravedere anche la figura del Quartiermastro, con abiti diversi e molto più popolani; i due le sorrisero poggiando le loro pesanti mani sulle spalle, facendola spesso sentire a disagio.

Sìmon De Caras – il bardo dal braccialetto d’oro


«Sei fortunata ragazzina» disse il bardo con una voce profonda e calma «Non è da tutti riuscire a ritrovare i propri genitori catturati dall’Anello.»
Rose non disse nulla, completamente in balia degli eventi.
I due la spinsero oltre l’uscio.
«La compagnia ha orecchie dappertutto ed è meglio esser prudenti, capisci vero?»
Il Quartiermastro lascò parlare l’altro e chiuse la porta senza aspettare risposta spingendo senza troppa grazia Rose all’interno.
La stanza, incredibilmente, era più lurida del resto del locale.
Un letto sfondato e sbilenco dominava al centro, un pitale, una bacinella su di un trespolo in ferro battuto con annessa caraffa ed uno sgabello spaccato erano gli unici arredamenti; non vi era una scrivania, nessun armadio o baule, niente di niente.
Rose si guardò intorno, le mancava l’aria e cominciò a respirare sempre più velocemente, la muffa caricava l’aria di un freddo così penetrante da trasformare le ossa in gelatina ed i polmoni in spugne.
Il suo cervello si rifiutava di capire, aspettava il momento in cui avrebbero parlato dei suoi, di formulare un piano e avrebbero poi riso di come avrebbero sconfitto l’Anello; invece non accadde nulla di tutto questo.
Abraham la spinse in avanti proprio verso Sìmon e di tutto il fare amichevole dei giorni scorsi non vi era più traccia.

Una ragazzina che ancora non ha dato il primo bacio si ritrova in una stanza con due uomini maturi; strinse forte gli occhi sperando che finisse subito ma non fu così semplice in quanto i due, ogni qualvolta la ragazza si irrigidiva troppo o era ad un passo dallo svenire o rifiutava di aprire bocca o gambe, la colpivano con forza, una, due, tre volte fino a quando il respiro smorzato non la portava a cedere.
Andarono avanti per ore.
L’apostrofarono con epiteti indegni, legandola, spezzandole lo spirito e frantumandole la dignità.
L’ultima parte umana della dolce Rose morì quella notte, si sgretolò al suono delle monete che il bardò elargì al compare.
Ma ora spegniamo un attimo la luce su questo racconto passando all’alba del giorno dopo cerchiamo di non indugiare troppo, cercando di fare affidamento alla nostra umanità e non cedendo alla morbosità che aleggia sopra la nostra anima.
Non narriamo null’altro di questa notte.

Tatuaggio dietro la nuca

Il giorno dopo, Rose utilizzò le monete guadagnate per il lavoro da mozzo cercando tra i marinai un tatuatore professionista; coprì tutti i lividi lasciati dai due con diversi tatuaggi finendo con una piccola bilancia sullo zigomo rotto ed un ulteriore tattoo dietro il collo.
Camminare le doleva, si reggeva a stento in piedi ma andava avanti; non poteva dimenticare quel sapore e quell’odore che sentiva dentro la gola e non avrebbe voluto farlo perché il ricordo alimenta l’odio e lei ha bisogno di odio per reggersi in piedi.
Tornò al galeone, i tatuaggi continuavano a perdere sangue, gli avevano detto qualcosa a riguardo ma non stava ascoltando e non le interessava; la vendetta va pianificata, non va colta troppo presto se no non rimarrai appagato e per questo che Rose fece finta di nulla e, alle risatine, le occhiatacce ed il mormorio, lei rispose l’indifferenza.
Sarà apparsa debole ma poteva accettarlo… almeno per il momento.
Arrivata davanti il barile di pece immerse i capelli dentro e poi, dopo un attimo alla ricerca di una pace, immerse totalmente il viso; il nulla, il silenzio, l’assoluta solitudine ed è proprio nell’oscurità più buia che venne definitivamente a galla la nuova se stessa.
Capelli neri, labbra nere di pece.
Qualcuno le disse di fare attenzione al mare, che è sempre affamato.


Ma ora lei è il mare.
Ora è lei affamata.

La Fame del Mare


I giorni passarono e lei continuava a tingersi di nero i capelli e grazie ad un esteta del sud mise le mani su di una miscela capace di cambiare il suo biondo platino in un nero corvo, un colore così scuro da non avere nessun tipo di riflesso; Rose da quel giorno ricordava la notte cupa.
Arrivò il suo “Bagno di Piombo” in cui avrebbe aiutato la ciurma nelle scorribande, unendosi fisicamente alla lotta e abbandonando il posto sicuro nell’infermeria; nel frattempo la corporatura della ragazza era cambiata ulteriormente, le spalle, le gambe e le braccia erano divenute più grandi, sollecitate dal lavoro manuale, e adesso sfiorava il metro e settanta di altezza, cresceva a vista d’occhio.
Una semplice corazza leggera di cuoio che immerse nella tintura scura per giorni ed una semplice daga dalla lama gretta e squadrata; niente magia, niente orletti o altro, Rose necessitava solo di un qualcosa per uccidere, per sfogare tutto quello che aveva dentro e persino una gamba di un tavolo sarebbe andata bene.

Carro prigione dell’Anello di Ferro


La ciurma era appostata in un boschetto che costeggiava una scogliera e si erano divisi in tre gruppetti con uno in attesa appena fuori di guardia ai cavalli ed un terzo nella zona collinare a tagliar fuori una possibile ritirata o man forte. L’obiettivo erano due carri carichi di schiavi dell’Anello.
Fu una strage, i pirati non lasciarono in vita nessuno.
Il tutto si risolse in una decina scarsa di minuti e si ritrovò fradicia di sudore e lorda di sangue; respirava a grandi boccate con i polmoni in fiamme ed era immobile in mezzo a quella morte.
Le sembrava che tutti loro si muovevano lentamente, come immersi nella melassa, il capitano, gli uccelli impauriti che fuggivano tra le fronde ed i suoi compagni che tirarono via un nano dalla barba grigia increspata e mal messa.
Era una vittoria a tutto tondo.
Nessun fuggitivo, nessun superstite e scopriranno la sparizione fra parecchie ore.
Ma per Rose non era finita.
I suoi occhi vibravano posandosi sulle spalle di Abraham, la mano si serrò con così tanta forza da sbiancare le nocche e a segnare i palmi con le unghie scheggiate e rovinate.
Si avvicinò decisa e affondò la daga fino al manico nella schiena del Quartiermastro.
Sentì un vero orgasmo che le scombussolò le viscere, fu puro piacere, sublime, sconvolgente ed impareggiabile; lo fece di fronte a tutti, senza nascondersi, le urla dell’uomo attirarono su di sé gli sguardi di tutti i presenti.
Lei, prima lo trascinò ai margini del boschetto, tirandolo dal manico della daga come un vecchio burattino, nella furia cieca Abraham la cercava ma non la raggiungeva ed ogni volta che effettuava una torsione verso di lei la ferita si allargava, squarciava le carni e faceva colare il sangue.
Le gambe dell’uomo tremavano ma non si arrendevano; gli altri, dopo un primo momento di stupore ed immobile incredulità si avventarono su di lei ma era troppo tardi.
Lei lo spinse di sotto, verso il mare che scatenava la sua furia sugli speroni di roccia.
L’uomo cadde in un urlo di puro terrore e il rumore delle ossa maciullate e rotte risalì fino alle orecchie dei presenti che rabbrividirono mentre lei ebbe un ulteriore orgasmo che le trasformò le ginocchia in gelatina, strinse le cosce per cercare di resistere a quel piacere ma un mugulo le sfuggì dalle labbra.
Rose guardò di sotto ed urlò con una voce calda, voluttuosa e sarcastica:
«ATTENTO CHE IL MARE E’ SEMPRE AFFAMATO, PORCO SCHIFOSO.»
Quando la colpirono la vista si annebbiò, tutto divenne sfocato e le voci divennero via via sempre più distanti fino a divenire un brusio indistinto.

Rose Mary adulta

Quando vide i ceppi ai polsi ed ai piedi le scappò una risata fragorosa e grassa che svegliò la guardia della celletta striminzita nella stiva del galeone; le sembrò di esser tornata al punto di partenza ma aveva guadagnato qualcosa in quella storia, le sembrò di esser cresciuta e di aver imparato a bastare a se stessa.
Bart non la degnò neanche di una parola mentre il Pixie Aguzzo si addentrò tra le sbarre fino ad arrivare ad un palmo del viso di lei.
«Stronza leccafighe, hai rovinato tutto. Perchè l’hai fatto? Ora dovremmo metterti a morte. Sei solo una merda.»
La voce dell’esserino divenne via via sempre più stonata ed a stento tratteneva il magone; aveva capito che qualcosa era successo ma alla fine non si può uccidere un proprio compagno.
«Potevi parlare con noi. Poteva finire meglio di così. Sei una povera stronza
La lasciarono nuovamente sola senza cibo o acqua perché non aveva senso sprecare cibo per qualcuno destinato a morire.

La mattina dopo la trascinarono sul ponte, non oppose resistenza e, dopo averla liberata la spinsero su di un’asse in bilico sul mare; si guardò intorno mentre il sole le feriva gli occhi con i suoi raggi e non vide la sagoma di nessuna terra all’orizzonte.
Mare aperto.
Bart spezzò il silenzio tra la ciurma.
«Abbiamo deciso di lasciare il tuo destino al mare. Avrai avuto le tue ragioni, Abraham non era un santo ma era uno di noi e non possiamo sorvolare sulla sua morte. Istishia sa quale è la verità e deciderà per noi.»
Rose sputò di sotto allargando l’ampio petto.
«Non avete neanche il coraggio di prendere la responsabilità delle vostre azioni. Vi tolgo dall’imbarazzo di questa commedia ridicola.»
Si voltò e saltò di sotto tra lo stupore di tutti.
Nessuno la spinse e Bart non fece neanche in tempo a salire con lei sulla passarella, semplicemente la ragazza nel disinteresse più completo verso quella vita che non le apparteneva più si tuffò nel mare profondo e silenzioso.
Il galeone si allontanò e la lasciò indietro.

Quanto sai di te stesso se non ti sei mai battuto?

Il mare ondeggiava quasi impercettibilmente ed il sole era ancora basso, l’alba era sorta da poco; non sapeva bene come sarebbe andata ma non se la sentiva di morire così, da sola forse ma aveva ancora tanto odio da donare al mondo e come prima cosa osservò il cielo.
Le stelle si intravedevano ancora, le lezioni di navigazione astronomica diedero i loro frutti e capì perfettamente dove era orientata la terra ferma ma non era sicuramente vicina; doveva risparmiare le energie cercando di prendere la giusta corrente e direzione.
L’acqua intorno era scura e silenziosa e solo il suono dei gabbiani che le planavano sopra le facevano compagnia ma erano solo momenti, perché presto il loro verso si spegneva e Rose Mary doveva confrontarsi con la paura che la sua vita potesse finire lì.

Simbolo di Istishia

Ben presto si ritrovò in una sorta di trance, dove il tempo sembrava non passare e i pensieri erano confusi; aveva bisogno di una presenza umana, di una mano amica che la aiutasse a superare la paura della solitudine e della morte ma l’acqua intorno a lei continuava a essere vuota e silenziosa, senza alcuna speranza di soccorso.
Il nemico più grande che affrontò in quella giornata fu il sole, implacabile e tremendo, rosolò la sua pelle, screpolò le labbra e mentre l’acqua salata le bruciava gli occhi e non sapeva quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva mangiato o bevuto qualcosa, il suo stomaco era vuoto.
La disperazione era totale e opprimente, un peso che la schiacciava e che sembrava non volerla abbandonare mai.
Non sarebbe resistita a lungo ma confidava nella sua fortuna, in una tratta mercantile o della semplice determinazione a non morire.
Ma la giornata passò e si fece largo la notte e con essa i tremori, era un leggero battito di denti ma col passare del tempo si aggiunsero spasmi conditi da convulsioni e questo non mise altro che una firma alla sua dipartita.
Rose Mary morirà lì.
In mezzo al niente e diverrà cibo per pesci.
Non rivedrà i suoi genitori e non li vendicherà, trasformando i suoi ultimi anni in un patema senza conclusione e senza scopo.
Tuttavia il tempo peggiorò portando il mare ad ingrossarsi e agitarsi, il cielo si coprì velocemente ed il vento si alzò soffiando nel corno di Istishia in un sibilo roboante e spaventoso; il cielo richiamò una tempesta epocale che la investì con forza sbattendola e trascinandola ripetutamente.
Continuò per un paio di ore, incessante, le forze della ragazza cominciavano a venir meno e lei cercava disperatamente di lottare per rimanere con la testa il più su possibile; stremata agitava le braccia inutilmente fino a quando non batté contro qualcosa di duro e tagliente.
Il mare agitato l’aveva spinta contro le rocce di una scogliera.
E Bartholomew “Black Bart” Roberts aveva ragione: gli Dei, o forse solo Istishia, avevano preso la loro decisione infine: salvata, sopravvissuta, ancora su questa terra.

Senza soldi arrivò alla cittadina più vicina collassando a pochi metri dall’ingresso secondario e questa volta al suo risveglio non trovò nessuno che si era occupato di lei o tratta in salvo; no, questa volta si risvegliò diverse ore dopo immersa nel fango della via tra l’indifferenza della gente.
Questa sensazione strana di esser ignorata, di essersi rimessa in piedi da sola la gratificò per il resto della giornata o almeno fino a quando il suo stomaco non borbottò come un’ancora buttata in mare.
Si diresse nell’unico posto che poteva aiutarla o meglio: nell’unico tipo di posto a lei congeniale, conosceva come la gente ci si muoveva all’interno e come rispondere a certe provocazioni, andò nell’unica taverna cittadina.
Non aveva niente con cui barattare un po’ di cibo ma aveva il suo corpo ed era deciso a sfruttarlo escludendo però ogni tipo di proposta sessuale.


Lei non era una troia, lei era una guerriera.


Batté il pugno sul bancone per cercare di richiamare l’attenzione dell’oste ma forse per il viso sbattuto o per i profondi tagli procuratosi nello scontro con lo scoglio, Rose Mary si ritrovò subito davanti una piccola porzione di stufato che cominciò a mangiare prima di subito.
«Ti avevo notata appena entrata, avevi bisogno di acqua e cibo ed almeno per una volta posso accontentarti. Prendilo come il benvenuto cittadino. Quindi: Benvenuta al Gabbiano Rugginoso nel villaggio Scogliera dell’Alba nella regione Impiltur, vicino la città Procampur

Kendrick – Oste del Gabbiano Rugginoso


L’oste aveva un aspetto ruvido e scarno con un viso segnato da cicatrici profonde, la più evidente attraversava il sopracciglio sinistro e scendeva lungo la guancia; aveva gli occhi di un azzurro intenso, ma che ora sembravano appannati e stanchi; si muoveva a scattoni, su gambe in alcuni momenti incerti mentre una delle braccia era stata gravemente ferita in battaglia e aveva perso gran parte della forza e della mobilità, tanto che la teneva sempre appoggiata sul fianco ed inoltre aveva le gambe leggermente storte e camminava con un’andatura claudicante, a causa di un’altra ferita che gli aveva causato una zoppia permanente.
Nonostante le ferite minacciose e l’aspetto burbero e sfigurato aveva un’aria ospitale e amichevole e il suo sorriso accogliente faceva sentire i clienti come a casa propria.
«Lavoro…»
Bofonchiò mentre mangiava, senza nessun ringraziamento o altro.
L’ultimo che le regalò qualcosa, in fondo, lo fece solo per venderla e stuprarla.
L’uomo al bancone si accarezzò la barba brizzolata corta, appena ricresciuta.
«Intanto mi chiamo Kendrick e, vista la tua stazza, potrei avere del lavoro per te.»
Kendrick era un ex lottatore che aveva lasciato l’arena per una brutta ferita di guerra.
E fu con lui che Rose passò i suoi recenti anni di vita; Kendrick non le mentiva e non la usava, c’era un semplice scambio di favori: lui l’allenava per un vitto e alloggio ed in cambio lei doveva vinceva gli scontri e dare una parte della vincita all’oste.
Imparò ad usare le mani in un altro modo, più diretto; sollevava e trascinava pesanti casse dalla mattina alla sera, sudava e sputava sangue per superare ogni suo limite.
Per Rose diventare più grande, più forte e più resistente era divenuta una fissazione, tutto il suo mondo girava intorno al volume dei suoi muscoli e gli unici odori che conosceva erano quelli della birra, del sangue e della terra delle arene.
Kendrick non le mostrava molto del mondo al di fuori delle basse mura della cittadina e a lei non interessava, in parte perché aveva già viaggiato molto con il galeone ed in parte perché la sua essenza aveva costruito una armatura o meglio un bozzolo, resistente e spesso che nascondeva a tutti quello che provava realmente.


Stava meglio da sola Rose, come un animale in cattività, non sapeva stare con gli altri; si trovava a suo agio solo con le spalle al muro come, in fondo, aveva vissuto per tutta la vita.


Il suo primo incontro non durò molto, si avventò contro quel ragazzo pieno di speranze come un cavallo in bardatura completa; lo schiacciò contro la parete, le ossa scricchiolarono, lui strabuzzò gli occhi dalla sorpresa e dal dolore.
I primi jab cercò di schivarli ma poi Rose lo sorprese e, quando gli afferrò il braccio, lo batté forte in terra e lì il crack fu più secco e improvviso, come un tuono che spezza un albero nella notte, osso rotto; combattimento finito ma invece lo tempestò di pugni, senza più coerenza o tecnica, continuò fino a quando i polmoni non le esplosero di fatica, fino a quando le nocche le dolevano scheggiate dai denti e dagli zigomi rotti, fino a quando il viso di quel ragazzo smise di sembrare, nella sua testa, quello del bardo stupratore Sìmon de Caras.
Si sentiva libera.
Come non mai.
Nessuno più l’avrebbe costretta a fare cose che non avrebbe mai voluto.
La trasformazione era compiuta e finalmente, il mare affamato e in tempesta dentro di lei, venne incanalato.
Si separò da Kendrick dopo diversi anni e una moltitudine di incontri, violenti e con regole sempre più labili.
Lei lo pagò per l’ultima volta, era sera tardi, cenava con carne di cervo e acqua fresca perchè l’alcool le rovinava il fisico e quello era il suo bene più grande.
Lui accettò il denaro serio e senza dir nulla le passò una scodella di stufato; Rose riconobbe l’odore, lo stufato del loro primo incontro.
Era identico, lo stesso sapore ma era lei ad esser diversa, le sembrò di esser seduta di fianco alla sua vecchia sé; aveva pietà per quell’essere dal corpo fragile e dalla lacrima facile.

Guardava la sedia vuota al suo fianco ed una invisibile bambina sperduta ricambiava e rimase immobile con ancora la scodella davanti, la bambina forse meritava qualcosa di meglio, una infanzia più lunga, rincorrere i gatti senza guardarsi costantemente le spalle e che splendidi capelli biondi che aveva. Rimase a guardarla ancora un po’ col pensiero di cosa sarebbe stato con un po’ di fortuna in più; spinse la scodella di fronte alla bambina ed uscì per sempre dal locale.

L’incontro

Viaggiò per il Faerun, combattendo e guadagnandosi il rispetto di ogni ubriacone e di ogni oste delle città in cui incappava e se non erano previsti combattimenti allora li creava lei spaccando un boccale in testa ad un avventore o sputando sul viso di qualcuna ben istruita.
Un pellegrinare incessante fino a quando la sua vita non si intrecciò con quella di qualcun altro.
L’ennesima cittadina senza nulla di interessante, Rose Mary andò diretta alla prima locanda disponibile, aveva bisogno di riposare perché aveva effettuato una lunga tratta ed essendo sola doveva stare attenta a dove si accampava.
L’aspetto esteriore era ben tenuto e l’interno non era da meno diciamo che ricorda quasi una oppieria che una taverna, gli avventori risultavano tutti ben vestiti e dai modi più posati rispetto alla media barbarica a cui era abituata; le sue orecchie catturarono dei rumori che, visto il luogo, risultavano fuori posto.
Due persone ne spintonavano una terza, risate e battutine di scherno ne accompagnavano la messa in opera; chi subiva il sopruso era di costituzione nettamente più gracile e dai lineamenti sgraziati contrassegnati da un naso aquilino.
Gli altri due erano più grandi e robusti, indossavano abiti curati e pesanti ed i lunghi capelli neri leggermente boccolosi si adagiavano su di un pellicciotto bianco latte; sul petto mostravano una placca d’acciaio ed entrambe avevano lo stesso stemma che, probabilmente, faceva riferimento a qualche casata ed a guardar bene persino il ragazzo aveva una spilla con lo stesso stemma.

Lord Pavel, del nobile casato degli Shemov di Ironspur


Solitamente non si immischia in queste cose ma la rissa giornaliera non era stata ancora provocata e quei due gli davano su i nervi; avevano bisogno di una lezione.
Nell’avvicinarsi si permise di rubare un boccale di una brodaglia indefinita da un signorotto dalla pancia prominente e dai baffi sottili e arricciati; cercò di opporre resistenza ma bastò uno sguardo per ricacciarlo nel suo silenzio borghese.
«Ma che bei ragazzotti, vedo che avete di che divertirvi.»
Il gracilino la guardò di sottecchi mentre stringeva al petto delle carte.

Uno dei due le si avvicinò puntandole il dito contro.
«Levati di torno signorina, questi non sono affari…»
Non riuscì a terminare la frase quando un getto proveniente dal boccale gli finì negli occhi; urlò più per la sorpresa che per il dolore.
«Ma cosa… Come ti permetti ma sai almeno chi siamo? Aldric facciamole veder…»
E anche il secondo fu preso di sorpresa: il boccale oramai vuoto venne fracassato sul grugno del secondo uomo, volò qualche dente per la sala mentre il boccale si ruppe in diversi pezzi che lasciò cadere per liberare le mani.
Riprese a colpire e a martellarli fino a quando non caddero a terra svenuti.
Rose si piegò sulle ginocchia per afferrarli entrambi per i capelli e mostrò i volti al terzo, ancora intento a raccogliere delle stupide cianfrusaglie dal pavimento.
«Sono Aldric e Cedric, i miei insopportabili fratelli. A proposito grazie ma ora devo andare.»
Persino la voce era fastidiosa totalmente nasale; sotto la camiciola, Rose, riusciva a vederne le costole e ne percepiva la pochezza fisica.
«Ma dove andrai?»

Cedric Shemov fratello di Lord Pavel


Si ritrovò a dire, si stupì da sola per quella domanda visto che poco tempo prima poco le importava di quel ragazzo.
«Lontano da qui, chiaramente. Dimmi un po’ vorresti viaggiare in mia compagnia? Avrei bisogno della tua protezione per arrivare alla mia prossima destinazione, ti pagherei ovviamente i servigi. Sono Lord Pavel, del nobile casato degli Shemov di Ironspur
Proteggere… compagnia…
Quali sono le priorità di Rose?
Proteggere qualcuno è una cosa nuova.
Qualcuno che dipendesse da lei.
Rimase per la seconda volta sbalordita quando rispose di si; lo disse con naturalezza, di getto, tanto che lo metabolizzò una decina di secondi dopo.
Presto si ritrovarono in viaggio e non era più da sola.
Doveva proteggere qualcuno.
I viaggi aumentarono e lei continuò a seguirlo; seguiva un uomo che poteva schiacciare, sicuramente dalla mente acuta ma pur sempre un fuscello, eppure lo seguiva.
Perchè, quell’uomo scheletrico, dai capelli quasi unti, il mento sfuggente e le guance rovinate dalla rosacea incarnava tutto quello di cui aveva bisogno per non perdersi totalmente nell’odio.
Quell’uomo era una simbiosi perfetta.
Col tempo ne apprezzò le qualità e capì che la seconda cosa che le mancava era esser amata e si avvicinò con le movenze di qualcuno che mai aveva conosciuto la dolcezza negli ultimi sedici anni.
Nessuno le aveva spiegato come fare, mai un bacio, mai una carezza e nessuna empatia e quindi lei prendeva quello di cui aveva bisogno e ne rigurgitava quello che, per Rose, sembrava la cosa più dolce del mondo mentre agli occhi esterni non erano altro che dominazione e prevaricazione.
Rose Mary era questo: una grande, forte, cattiva donna insicura, mai amata che porta dentro se stessa un grande mare in tempesta affamato che divora e affonda tutto ciò che la circonda.

Nel loro pellegrinare, Rose Mary al fianco di Lord Pavel, finirono nel Cormyr dove raggiunsero un villaggio in rapida espansione di nome Homlet, nel quale decisero di stabilirsi.

Carattere e personalità

Rose Mary è diretta, non conosce modi diversi dall’imporsi con la forza. Cerca lo scontro verbale finalizzato ad arrivare allo scontro fisico ma non rispetta chi fisicamente le è superiore. No, lei rispetta chi dimostra una certa iniziativa, una certa risolutezza e chi ha una certa morale, anche se non lo dimostrerà mai.

Non riesce ad esprimere empatia, il che non significa che non sa cosa sia o che non ha un cuore ma che semplicemente non sa come si fa. Non ha avuto un’infanzia ed ogni suo sogno è stato preso, accartocciato e gettato ai maiali.

Rose Mary si è costruita una corazza per tenersi al sicuro e il suo atteggiamento bullo e prevaricatore serve per cacciare tutti lontano.

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